Domenica otto marzo 2009
Parliamoci chiaro: l’avvenimento offerto ieri dal Centro Sociale Valle Faul era roba forte – su questo non si discute. Roba del genere a viterbo se la sognano, ancora persi ad inseguire le stelline dei reality, i comici televisivi e le torme di cantantelli che si vanno vivi ogni tanto costretti dai produttori ad allontanarsi dalle cattedrali della mondanità per giungere qui a Bucodiculo, Altolazio.
E non si tratta neanche di quegli sporadici eventi decenti che qualche promotore improvvisato riesce ad infilare nelle squallide scalette locali, quasi per caso e senza avere un’idea precisa di cosa si stia parlando.
Adesso dovremmo spendere delle parole su come si vestono le star, sulle firme da loro scelte per salire on stage, dovremmo parlare delle loro vite private e di quali calciatori o veline si sbattono, dovremmo parlare di quello che si è fatto la chitarra usando la bara di sua nonna e come plettro usa solo palle di gufo nano trifolate ma fortunatamente stiamo parlando di Musica.
La città di viterbo è così squallida che nemmeno una cosa squallida come il festivalbar ci viene più
ad intrattenere i borghesi ossigenati e sguaiati che la abitano. Quella non è musica, chiaramente, così come non è musica quella che ascolta chi dice che ascolta sempre musica.
La trascendenza, l’anelito alla libertà ed alla pace sono qualcosa che va oltre l’ostentazione dei divi e la mendacia delle relative eminenze produttive. La musica non si canticchia sotto la doccia come l’arte non sta su un cartellone pubblicitario e la verità non sta sulla bocca dei tiranni.
Stupirebbe vedere quanto il gruppo sia a proprio agio nella rustica ospitalità di movimento viterbese. Fossero finiti tra le grinfie di qualche combriccola radical chic sarebbero stati messi in mostra come delle scimmiette e poco ascoltati, mondanizzati praticamente.
Chiacchiere estranee alla forma espressiva caratteristica degli Embryo: la musica – quella vera.
Abbandonarsi alla vibrante meraviglia armonica che da sempre caratterizza la band non sarebbe difficile se solo non ci fosse una sessione ritmica ad inchiodarci – per sicurezza – sulla terra. I fiati disegnano un sottile arabesco che solo a volte si spalanca in scrosci di “puro” free. A volte l’ambiente si satura delle vibrazioni e tutto quanto entra in risonanza ingrossandosi come un fiume nella stagione delle piogge. Cambiano strumenti, si spostano, si aggiustano secondo l’atmosfera – tentano anche un accenno al nostro premier, nelle poche parole spiccicate da uno dei membri storici Christian.
Mi guardo intorno di continuo Scatto foto che non saranno mai decenti, nel buio impossibile tipico del posto e nella scarsezza di risorse delle mie macchine. Scatto comunque come un ossesso, almeno non mi sarò portato appresso il peso invano e se ci scappano un paio di scatti decenti il Centro avrà un’altra foto ricordo da attaccare da qualche parte.
Impossibile non rimanere concentrato sulla musica comunque – anche se sono stanco, sfatto, sconvolto.
Mi giro, mi rigiro, mi volto – osservo i volti della gente , cerco di allontanarmi dai piccoli focolai di chiacchiere che ci sono. Possibile che non se ne accorgano? Possibile che non si rendano conto che si trovano di fronte a qualcosa di importante, un’esperienza da condividere, da ricordare, da desiderare ancora e ancora?
Come si può rimanere indifferenti?
Ma a me questa musica non piace. Direbbe qualcuno. Perchè dovrei ascoltarla?
Di nuovo prede dello star system, di nuovo scelte fasulle che ci distraggono.
Questa roba rende il mondo un posto migliore? e questo il suo segreto?
E’ possibile che a qualcuno non piaccia un tramonto – o che comunque non ne tragga emozione alcuna?
Questi sono gli embryo: vibrazioni che arrivano anche dove nessuno è in grado di udirle, risonanze che restano a vibrare per molto tempo.
Mi chiedono come si chiama questa musica. A quale genere appartenga. A cosa assomigli.
Provo un senso di benessere – un moto di gioia che mi scuote le viscere quando penso alle risposte che – per forza – bisogna dare al catalogatore ansioso di barrare caselle, riempire moduli, escludere, raggruppare, rastrellare, includere, recludere, internare, deportare, segregare ed eventualmente olocaustare.
Si chiama musica meravigliosa, appartiene al genere della musica bellissima e non assomiglia a niente, pur partecipando di un sacco di cose.
Poi ci sarebbe il catalogatore che potrebbe dire: ci sento una vaga influenza dylaniana – l’omaggio a parker con le quinte diminuite – il basso sapeva di tabacco virginia cuoio battuto frutti di bosco – mi ricordo che in un concerto sconosciuto del settantotto il cugino del cane del batterista dei led zeppelin usava solo plettri di costruiti a mano da un liutaio jugoslavo cieco.
Categorie, dettagli, nomi: il sistema non aspetta altro che noi ci riconosciamo in qualcosa per appiccicarci sopra l’etichetta del prezzo e questa è la vera grande truffa del rock – la grande bugia di un’anima sovversiva che non c’è stata mai perchè sono tutti stati irreggimentati nel personaggio che nel bene e nel male hanno interpretato a vari gradi di consapevolezza. D’altra parte il nome è la prima imposizione che subiamo, quella primordiale da cui poi derivano tutte le altre – compresa la seconda che è la religione. Tu sei Nome, stai in Luogo, servi a Scopo e Tizio è il tuo padrone.
Ma questa gente non può farci male: noi non l’ascoltiamo. Noi siamo rapiti dall’estasi – siamo uniti nell’estasi.
O almeno lo sono io, unito nell’estasi, anche se ogni mio neurone schizza via per proprio conto e le percezioni sono incasinate e sovraccariche..
Mi guardo intorno di nuovo, in cerca di qualcuno con cui condividere questa esperienza.
Non sono neanche sicuro di volerlo fare – ne di poterlo fare. Sono una creatura antisociale ultimamente anche se questo stride col luogo e con l’evento e me ne dispiaccio sinceramente. Sono qui anche per questo, perchè gli embryo riaccendano in me la meraviglia nei confronti delle genti e dei luoghi e delle cose del mondo. Perchè mi portino in luoghi Altri, affinchè io (e chi ascolta con me) comprenda che non siamo soli, pur essendo individui – come le stelle.
quello che devo fare è ascoltare il più possibile, lasciarmi andare e tornare al mio domani – lunedì – cercando di essere una persona migliore.
Durante la pausa il gruppo si fa una fumata e cerca qualcosa da bere . Dicono che il vino sia buono ma non l’ho assaggiato. La gente chiacchiera. Cerco timidamente di condividere la mia estasi ma ne sono incapace. La band ha un cartone di CD e qualche vinile della sua vasta, variegata e maccheronica discografia: qualche copertina cartonata e poi cd masterizzati infilati in fotocopie delle copertine piegate. Voglio prenderne un paio e grazie alla pedante invadenza di una tizia – finalmente rivelatasi utile – metto insieme i soldi, soldi che la tizia che li ha svenati non rivedrà probabilmente più.
Avvicinandomi la gente acquista. Gente qualunque: il lavoratore capitato qui per caso, la creme dell’inteligencja artistica imballata viterbese. Chiedono: qual’è quello psichedelico? Voglio quello Jazz! Questo com’è? Questo che è? Chiedendo al povero Christian di calarsi nelle suddette categorie.
Sperano di comprarsi dei mood personalizzati per anestetiche serate da trentacinquenni imballati, mandando a riposo il povero sfruttato Miles Davis e scartando all’occorrenza l’atmosfera preconfezionata di cui hanno bisogno: chiacchiere concitate e piatto in giro, bottiglia di rosso e botte acchittate sulla schiena del* partner (occhio al rischio di concepimento), feste esclusive in locali ed occasioni arty, serate e seratine.
Buon per loro che sono capitati nel posto giusto. Per quanto sia pacchiano l’intento si troveranno per le mani qualcosa che malgrado i loro sforzi li renderà diversi. Ci renderà diversi.
Non importa in un attimo di riposo della schiena a sedere su una panca l’incessante chiacchiericcio di due tizie convinte di essere dal parrucchiere – fanno comitiva, come biasimarle? Chi non ama le comitive?
Non importa il solito schiamazzante dal tasso etilico esagerato.
Non importa chi pensa che questa sia solo un’occasione mondana: non possono mica tapparsi le orecchie con la cera.
Qualunque cosa, qualunque attività qualunque carattere: purchè si sia qui. Il resto lo fanno loro.
Mi guardo ancora un po’ intorno, cercando di cogliere qualcosa che magari penso solo io.
L’atmosfera del luogo fortunatamente è intatta: preservata negli anni da un decadimento generale di tutte le nostre coscienze, da un riflusso diffuso e ostentato ancora peggio che negli anni novanta: tutti col loro bel telefono, la loro macchina digitale, il pezzo di cocco, la birretta, la chiacchiera stantìa sul lavoro sui figli sui film, il saluto di convenienza, la voglia di imboscarsi a fare cose da grandi, droghe da grandi non queste cazzo di canne che ti rincoglioniscono e non ti permettono di fare-produrre niente.
Una coscienza collettiva di massa gli embryo – così come gli interventi del pomeriggio ispirati dall’atmosfera di terrore che si respira in un paese con i campi di concentramento – in paese (mondo) con l’apartheid dei padri sulle madri e dei mariti sulle mogli, in un paese in cui stare insieme così tanto per farlo – gratis e senza fini produttivi di sorta – è un’attività sospetta, lo straniero è colpevole di ogni male e dappertutto si cercano protocolli pieni di improbabili complotti.
Una coscienza collettiva di cui il centro sociale è nido, covo, rendez-vous point da anni smentendo con la sua caparbia importante esistenza tutte le negatività che solo una città squallida e collaborazionista come viterbo sa dare.