Gita al lazzaretto

Gita al Lazzaretto.
Mi reco nell’ospedale cittadino per la visita di un parente affetto da polmonite.
Le premesse ci sono tutte: è sistemato al reparto "breve osservazione" per carenza di posti letto nel reparto cui sarebbe
destinato.
Arrivando ricevo da mia madre comunicazione della loro ubicazione:
-pronto soccorso. Si entra da sotto.
In fondo alla lunga salita che sto percorrendo e che mi porta fuori cittaà arrampicandosi sul Belcolle, mi appare inalmente la struttura.
Ad una prima occhiata sembrerebbe non dissimile ad ogni altro ospedale: imponente, spettrale, squallido.
Avvicinandomi mi rendo conto che trovare parcheggio è un impresa impossibile: gli spazi predisposti e quelli appena ollerati sono già straripanti di vetture che lasciano presagire il tasso di evoluzione antropologica dei loro occupanti.
Dinnanzi a me si staglia questo immane Behemot incompleto, finestre mancanti si aprono come occhi su un universo di calcinacci, vetri rotti, sacchi di cemento spaccati che riversano polverosi intestini su pavimenti non finiti e ormai eteriorati irrimediabilmente, piastrelle impilate, crollate, disintegrate, tornate a disperdersi nello spazio sotto forma di pulviscolo.
Un golem di appalti, condoni, mazzette, ritardi, interruzioni, forniture pilotate, riciclaggio: contenitore di altri contratti, accordi, arrivismo, bustarelle, disinteresse, incapacitè, file interminabili, si rivolga a, ho un amico che.

 


Il mostro è stato ristrutturato da poco, nonostante non sia ancora completo: il suo inizio risale a trentuno anni fa, ben  quattro prima che io nascessi.  

Di recente è stato costruito l’edificio del pronto soccorso, sul retro ma ancora non è possibile vederlo da dove sono io.
Alla mia sinistra una costruzione che cresce su oscure strutture seminterrate: grossi comignoli fumano emettendo quello che è Odore di Ospedale (dado da brodo – conserva di pomodoro – qualcosa di acido). La struttura dovrebbe essere dedicata alle abitazioni dei lungodegenti. Un po’ piu ùvanti, sempre sulla sinistra c’ è un muro altissimo che chiude la ona dove era il vecchio pronto soccorso.
Lo ricordo bene, ci sono anche stato a seguito della frattura di un braccio ed inoltre ci ho accompagnato degli amici qualche volta, più o meno incidentati.
Era costituito da una sala d’ attesa ed una porta invalicabile; poi un banco accettazione e la porta di un posto di polizia.
L’atmosfera era da sanatorio medievale: gente pallida ed allucinata in attesa snervante non si sa da quante ore, parenti che urlano, mogli picchiate che difendono il marito dall’ira dei congiunti, carabinieri nervosi. vecchissimi cartelli con le foto di funghi velenosi, con istruzioni di igiene dentale e con avvisi sulla pericolosità dei serpenti.
Un telefono rotto.
Un distributore di nulla.
Tutto murato e sepolto nel cemento.
Ci sono capitato di notte, circa tre anni fa, al seguito di un ambulanza che accompagnava un conoscente preda dell’ennesimo attacco di epilessia.
Telefonata: ore una del mattino.
-Signora sono OMISSIS, mi dispiace che ci dobbiamo sentire sempre in queste circostanze ma suo figlio OMISSIS sta andando di nuovo al pronto soccorso. Si figuri, arrivederci.
Quella volta eravamo entrati da una porta di questo pronto soccorso abbandonato e e con qualche amico avevamo fatto uno splendido tour notturno in corridoi seminterrati, bui, caldi e spettrali: degno di un film horror.
Di giorno era anche peggio.
Ora di fronte a me avevo solo il sinistro mastodonte: sette piani di cemento, vetri, piastrelle sbiadite, chiazze di umido, sbuffi di vapore, intonaco cascante.
Entro da una porticina che paragonata all’edificio ed al traffico umano che accoglie è degna di Alice nel paese delle meraviglie. Non mangio nessun biscotto, per̀o mi infilo dentro osservando una vecchia che siede su una panchina rugginosa e fuma una sigaretta facendo colazione.      

C’ ̀e una guardiola con due operatori, li snobbo e mi dirigo verso il vano ascensori.
Gli ascensori per il pubblico sono due, uno accanto all’altro, per gestire dieci piani di un edificio lungo oltre cento metri.
Ci sono circa quindici persone in fila per ogni ascensore. Li ricordavo lentissimi ma non così tanto. Per arrivare da un piano all’ altro impiegano un lasso di tempo che sembra non avere mai fine. Le fermate? tutte, ovviamente.
Abbandono l’idea ed imbocco l’unica rampa di scale presente entrando appieno nel microcosmo ospedaliero.
Ovviamente le indicazioni che stanno prima della rampa sono inservibili (compresa quella a pennarello "discoteca", frutto della fantasia di qualche visitatore che fruisce appieno dello schifoso umorismo locale): l’architettura interna è costituita da anni di suddivisioni, ripensamenti, spartizioni, ricavi, riutilizzazioni, riconversioni, messe a norma di legge  e quant’altro possa far sembrare lo spazio di un edificio degno della migliore immaginazione di Borges.
Sono al piano menotre. Ora che al piano zero corrisponde un pronto-soccorso, accettazione centrale (di cui vi parler̀o dopo) la cosa ha quasi un senso ma per due decine di anni questo ingresso al piano menotre faceva sentire le persone già seppellite all’arrivo, un po’ come in quel buffo ed inquietante racconto di Dino Buzzati.
Faccio tre gradini e ci ripenso. Forse conviene passare da fuori, da qui non si passa, me lo ricordo bene.
Ricorro all’aiuto delle signore della guardiola.
-Scusi da qui come si arriva al pronto soccorso?
Fa una faccia strana.
-Da qui ̀e molto difficile arrivarci..
Interrompo.
-Conviene che faccia il giro da fuori?
Si rifiuta di dirmelo.
-Devi andare al piano zero, percorrere il corridoio del bar fino in fondo, svoltare a sinistra, attraversare il camminamento verso l’altra struttura.
Torno indietro. Salto gli ascensori. Imbocco le scale. Mi arrampico. Sfocio al piano zero. Percorro il lungo corridoio esterno che porta al bar. svolto a sinistra. attraverso una porta. Prendo il camminamento verso l’altra struttura.
Sono in territorio per me inesplorato. Rimango a bocca aperta.
Il corridoio a vetri (un tizio accucciato a terra su delle carte parla in inglese al telefono) dà sull’ esterno alla mia destra mentre a sinistra dà su un atrio enorme sormontato da imponenti travi d’acciaio ed attraversato da camminamenti che convergono verso un enorme cilindro centrale simile ad un reattore nucleare.
Ricordo quella struttura da quando esattamente dieci anni fa fui ricoverato per la frattura. All’epoca spuntavano dal cemento i tondini di ferro del rinforzo, arrugginiti e circondati da erbaccia. Erano dei ruderi molto simili agli edifici diroccati che si vedono in "stalker" di Andrej tarkovskj, immersi in una vegetazione selvaggia, circondati da rivoli ‘acqua e sprofondati in un’atmosfera quieta e sinistra.
Indipendentemente da cosa contenesse il cilindro, tutta la struttura sovrastante sar̀a inutile anche a costruzione ultimata: buona per farci un centro commerciale o girarci un film d’ azione, con i corpi speciali che si calano da sopra e ocambolesche sparatorie lungo i camminamenti (e perch́e no un bel combattimento di Kung Fu).
Oltrepasso tutto il camminamento (medico svogliato con bicchiere di carta in mano, ragazzotta bionda con un bel culo abbondante, guardie giurate svogliate, porte sull’ esterno, traffico di ragazzini, militari, vecchi e storpi).
C’ ̀e un’ altra "reception". Non chiedo, esco fuori perch́e sono convinto di aver sbagliato strada, esco, salgo delle scalette, entro in una porta con scritto "pronto soccorso, ingresso pedonale". E’ il punto dove arrivano anche le ambulanze. C’ ̀e della gente ed un bancone con dietro una signora.
A dire la verità è una parola un po grossa: la osservo per diversi secondi prima di capire che si tratta di un essere senziente o comunque di una creatura ammaestrata. Io sono brutto. Lei ̀e ripugnante.
Le chiedo del mio parente.
Consulta un pc, o fa finta.
-è stato trasferito – grugnisce – no aspetti: reparto breve osservazione.
Ha i capelli simili ad un’ unica massa spugnosa di un grigio indistinto ed industriale, il volto levigato con violenza, come se si sciacquasse il volto coll’acido, gli occhio dalle pupille grosse e spente come quelle di una mucca o di uno squalo.
-Dove trovo "Breve Osservazione"? mi adatto immediatamente ai codici segreti del luogo; suppongo che il suddetto sia un reparto ma fino ad ora non ne ho trovato traccia: le indicazioni in questo posto sembrano uscite dal peggiore dei rebus su una rivista da barbiere.
Mi dice dove.
Esco. Scendo un po’. Attraverso. Rientro. Svolto. Salgo. Svolto.
Corridoio: macchinari e carrelli, qualche letto comprensivo di degenti sul corridoio. Resti di umanità. Mi serro le nari con la manica del maglione.
Il motivo per cui detesto gli ospedali è questo. Un caldo orribile, insopportabile ed il fetore tremendo di disinfettanti, sudore, escrementi, vestiti sporchi, resti di cibo più o meno consumato e più o meno adatto ad un essere umano.
Odore di febbre, temperatura da febbre: sento già le narici che mi prudono, come se milioni di microorganismi vi si stessero aggrappando, come se un po dello squallore stesse filtrando in me e per farlo cercasse di estrarmi il cervello dalle narici con un uncino di metallo, per farmi diventare una mummia come molte di queste persone.
E’ cos̀ì  la cosa più brutta della malattia, la cosa che probabilmente ti da il colpo di grazia meglio di qualunque "colpo" è proprio lo stato disumano in cui ci si riduce, la privazione della dignità a cui vieni sottoposto quando vieni trattato in questo modo, ospitato in simili luoghi. Quello che ti ammazza è dire: "se sono ridotto così̀ tanto vale crepare".
O almeno ammazza la maggior parte della gente che sopravvive all’incapacità ed alla malavoglia del personale, alla scarsezza dei mezzi, alla primevia (si dirà?) delle tecniche e dei metodi.
Qualche infermiere, qualche medico, qualcuno semplicemente finge di essere indaffarato.
Un’ infermierina neanche male: faccino pulito, capelli scuri ordinati, sguardo intelligente ma stanco; tipico di chi fa un lavoraccio.
Impossibile stabilire contatto con lei, preferisco un individuo vestito di bianco, enorme che trasuda brutalità e presunzione. Gli chiedo del mio parente, mi indica a chi chiedere.
Principio di delega: essenziale per far funzionare una struttura così grande, assieme al principio di delazione.
Trovo la stanza.
STOP.
2. Humanitas o quasi
Mi sto recando verso il bar. Obiettivo: rimediare del succo di limone, bevanda non popolarissima da qualche decina d’anni, cui si attribuiscono proprietà astringenti  naturali.
Svolto. Esco. Svolto. Imbocco. Scendo. Svolto. Esco. Entro. Percorro di nuovo il lungo camminatoio con le vetrate: un’ agente della swat mi dice che è tutto ok e ritira il cavo con cui si è calato dall’elicottero. Giungo al Bar.
Sono pregato di effettuare lo scontrino prima di consumare, mi appresto a farlo.
La cassiera: età avanzata.
Si esprime a fonemi degni degli ominidi di 2001 odissea nello spazio, mi aspetto che da un momento all’altro voglia attaccarmi brandendo un grosso femore.
Mi guarda strano come a dire: "in questo spaccio si vende solo paccottiglia costosa che uno sente il bisogno di comprare ad un parente ricoverato, caffè e cappuccino in bicchieri di plastica, alcolici al personale: per dargli la carica."
Naturalmente non sarebbe mai in grado di esprimersi in maniera così articolata.
Riesco a contrattare: devo chiedere il mio succo di limone e farmi suggerire dal barista stesso quanto devo pagare.
Non c’è uno spremiagrumi e mentre lo cercano mi intrattengo osservando la donna primitiva che mi sta accanto.
Si esprime in un linguaggio rozzo, brutto ed inquietante e le sue movenze rispecchiano quello che deve essere un animo piuttosto abbrutito. Osservandola non posso fare a meno di pensare a sinistre e diroccate baracche circondate da fango e sterpaglie, gatti macilenti che si aggirano prima d finire in pentola, accoppiamenti tra consanguinei, mandrie di figli sfornati da instancabili incubatrici umane, mostri deformi e frignanti, già pronti a sopraffare, violentare, sbavare robaccia marrone dalla bocca sdentata, un pallone da calcio che rotola vicino alle ossa consumate di qualche ex-animale da cortile, risate sguaiate, televisione ad alto volume, denti neri che strappano carni insanguinate da ossa irriconoscibili, occhi acquosi e rumore di risucchio ad una tavola imbandita del più sordido banchetto.
Acquista: due caffè corretti messi una bottiglietta di succo di frutta, due pacchetti di crackers, una rivistaccia. Parla a voce altissima e si aggira dietro di me in fila, cercando di passarmi avanti, mentre urla qualcosa alla cassiera.
E’ zoppa e all’ ennesimo grugnito mi faccio scappare un "che bestie".

LA ragazza davanti a me si gira, faccio un falsissimo "oops, l’ho detto ad alta voce?" cercando la sua complicità, e chissà magari una pelle frettolosa e cinica in un  cesso ospedaliero. Nessuna delle due.
Quando tocca a me pagare questo fottuto limone spremuto (ottantaeurocent) la donna mi passa maldestramente avanti dandomi una spallata ed intanto afferrando una busta di cioccolatini e colpendomi col gomito.
Se la intende perfettamente colla cassiera: le immagino a ridere mentre cuciono all’uncinetto un maglione color verde marcio ed i loro nipoti si rotolano nel fango giocando con dei rottami travestiti da giocattolo; probabilmente più in là i figli più grandi stanno scopando la sorella di uno dei due, magari le rifilano dei pugni, magari l’ affittano a qualche amico.
Ottiene quello che vuole.
Pago il mio succo di limone (trattiamo a 50 eurocent perchè non ha da darmi il resto di dieci euri).

Scappo lasciandomi sfuggire: "questa sarebbe la patria di Dante?".
Svolto. Percorro. Salgo. Svolto. Svolto. Cammino. Consegno e scappo via.
In macchina, mentre abbandono questa collina sordida e schifosa una musica strozzata, folle e splendida – John Coltrane mi solleva un poco e mi porta via da questo luogo di morti viventi e di vivi moribondi.

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3 Responses to Gita al lazzaretto

  1. DDD says:

    era “world war Z” c’è scappato un due di troppo

  2. ddd says:

    a proposito di zombies non possiamo che consigliare “manuale per sopravviere agli zombi” e “world war Z2” entrambi di Max brooks (figlio di mel e di Anne bancroft tra l’altro)

  3. Riccardo says:

    Credo che in realtà sia la patria di “Dante lo scorreggiante, ne fa una, ne fa tante”. Sì, quel Dante lì.

    E poi se ci pensi bene, tolto il succo di limone e messo un fucile a pallettoni, gli zombie ci sono già per il nuovo Resident Evil…la prossima volta ricorda di sparare alla testa che cadono giù prima =)

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